Stanco morto

Mi sono coricato, a pezzi. Non vi succede, in questi casi, di avere l’impressione di piombare ad alta velocità verso il fondo?

Sotto di me non c’era il materasso, ma il vuoto e io scendevo, scendevo, via dalla giornata trascorsa.

Avevo appena preso una bella velocità in caduta libera, quando mi ferma una pattuglia. E d’improvviso mi trovo sul ciglio di una strada, una specie di via lattea, illuminata a giorno dalle stelle.

Mi chiedono i documenti. Sono in due e sembrano carabinieri, solo che sono in pigiama, con strisce rosse sui fianchi dei pantaloni, portano una cuffia da notte con la fiamma in fronte e al posto del lampeggiante dell’auto campeggia un’abat-jour. Non ho i documenti, dico, ero a letto e cercavo di prendere sonno. Non si va in giro senza documenti, dicono, e in più il limite del mondo dei sogni è cinquanta, mentre io stavo viaggiando a duecento.

Nel mondo dei sogni non ci si può fare male, dico.

Come no? Mi indicano un funerale. Un vecchio tirato sotto da uno come me, in sogno. Quel vecchio non si sveglierà mai più, dicono. Si stava tuffando in un oceano giallo quando è stato preso in pieno da un uomo che volava. Il vecchio mi passa davanti, è il mio vicino di casa. Mi guarda e mi fa l’occhiolino.

Io pensavo che nei sogni si potesse fare qualsiasi cosa. I militi scuotono la testa. Sono trecento cheeseburger, dicono.

Ma io non ho trecento cheeseburger. Allora mi dicono di vuotare le tasche e in effetti estraggo trecento cheeseburger. Avete visto, dico, che si può fare qualsiasi cosa?

Sbagliato, osservano. Quelli lì sono trecento hamburger. Non è vero che uno pensa ai cheeseburger e gli vengono i cheeseburger, che uno pensa di volare e gli va tutto liscio. Bisogna fare i conti con gli imprevisti e soprattutto con il mondo di fuori, quello dove vivi quando sei sveglio.

Come facciamo con i cheeseburger, dico. Volete un bonifico? Uno dei due spegne l’abat-jour e le strada diventa una discoteca, dove nessuno balla.

Che ne dite, ragazzi, facciamo due salti? Ma loro mi prendono gli hamburger e li mettono in un frigo portatile, poi salgono sulla macchina e rimangono fermi. Uno si mette a leggere “Confidenze” e l’altro “Il sosia”. Leggono aiutandosi con le torce.

Io rimango lì un po’, le mani in tasca, fissando gli orsi sul mio pigiama. A un certo punto uno degli orsi mi dice di andare, che si annoia. Così, timidamente, prendo a camminare. Poi, dopo qualche passo, mi volto indietro; i volti illuminati dei militi da notte sono immersi nella lettura.

Come spesso succede nei sogni, decido che ho voglia di tornare, lì non c’è nulla di interessante. Riemergo veloce verso il dormiveglia.

Al mattino mi hanno svegliato le sirene. Hanno trovato il mio vicino di casa morto nel letto, gonfio e fradicio, fra lenzuola bagnate nell’oro.

Ancor prima di prendere il caffè sono sceso sotto casa, dove c’è un negozio di articoli da spiaggia, e ho comperato un salvagente. L’ho gonfiato con la bocca e l’ho appoggiato sopra il letto.

 

Case

Sulla collina, nel ventre di una fila di case davanti a me, nuove e diroccate nel contempo, sbattevano maliziose le ante, in assenza di vento.

Le finestre hanno iniziato a fare l’alfabeto morse, sembravano lingue di incendi sul nascere. Mi hanno chiesto chi ero e mi sentivo stupido, perché la casa mi parlava. Quando quattro finestre si sono accese nel contempo, il latrato del cane triste è svanito, i rumori dei paeselli laggiù si sentivano appena. Sotto il balcone, il passo di una donna testimoniava la sua rinnovata attenzione per la portulaca e l’acetosella, ma io ormai ero figlio del buio, sentivo la vita come un’amica lontana, al pari degli spilli di stop accesi sulle automobili di gente smarrita nella notte.

Non ho mai pensato che avrei potuto parlare con le case, ma forse questo capita una certa età. Non ho mai pensato che avrei potuto capire le case e le cose, non avrei mai pensato che un cedro e un rovere potessero essere testimoni della mia intesa con quelle facciate slavate che carezzano la cresta della collina al punto che sembrano parte di essa. Le luci di vecchi lampadari ammiccavano gialle e fioche, identiche a quelle della mia cucina, durante l’infanzia, quando seduto in un angolo vicino al televisore acceso leggevo romanzi d’avventura e pensavo che la vita vera fosse quella lì, quella dei romanzi.

I lampadari con il linguaggio morse mi chiedevano chi ero, ma non ho saputo rispondere.