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studi classici, bonsaista della domenica

Una normalissima procedura

Antonio Virdis deve partire. Finalmente! Spiagge bianche, cielo blu.

Non ce la fa più, ma quando si ferma davanti al colorificio si sente già un uomo nuovo.

Il ragazzo del colorificio ha occhiali grandi, rotondi, un ciuffo sostanzioso della sua giovinezza gli copre per intero una lente, cosicché deve guardare sempre un po’ di sbieco.

“Eccomi!” esclama Virdis, euforico, parandoglisi davanti, a uno sportello consunto dai vetri opachi.

Il ragazzo mormora un buongiorno sospettoso. Di solito si trova davanti imbianchini, manutentori, muratori, vecchietti che per la decima volta in un anno devono ritoccare quello spigolo esposto alle intemperie, personaggi strani che gli portano campioni di colore ai limiti dell’impossibile, però questo qui non sembra uno voglioso di pitturare, anzi tiene dietro di sé una valigia da viaggio.

Virdis, come se gli avesse letto nel pensiero, gli spiega che la sua macchina è al parcheggio centrale – che non è così vicino – ma è ugualmente felice perché deve andare in Madagascar. Sa per caso dove si trova il Madagascar?

A scuola non studiavo mai geografia, dice il ragazzo, però sono bravo in disegno.

Appunto, eh già, appunto, dice Virdis, come se chi è bravo in disegno debba lavorare per forza in un colorificio.

Il ragazzo lo guarda e non gli chiede nulla. Potrebbero star lì fino a sera.

“Ho bisogno del lasciapassare, sa indicarmi lo spogliatoio?” dice Virdis.

In che senso.

Io non che sia pudico, dice Virdis. Pudico sì, ma assolutamente nella norma. Senza eccessi, diciamo. Mostrarmi con i calzoni calati, sa, magari entra un cliente, insomma è imbarazzante, almeno per me, anche se alla fine è una normalissima procedura.

Il ragazzo cerca con lo guardo il suo principale, che ovviamente è chiuso in ufficio con Monia a mostrarle il Pantone.

Che tipo di lasciapassare, dice il ragazzo. Cioè, voglio dire, che tipo di colore.

Verde, ovviamente.

Le faccio vedere i campioni di colore, dice il ragazzo.

“Ma no, ma si figuri, non ho bisogno di vedere campionature, ci sarà un colore standard, suppongo.”

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Ci sono molte gradazioni, fa presente il ragazzo. Lo smeraldo, l’acido… Vorrebbe aggiungerne altre, ma non gli viene in mente più nulla. Il verde erba, aggiunge alla fine, orgoglioso. Lei ha un campione con sé?

A meno che in Madagascar ci voglia un colore particolare, Virdis non ha preferenze. Il verde che fate di solito, dice.

Con il tintometro – dice il ragazzo guardandolo di sbieco – riusciamo a ricavare il suo verde, sempre che abbia un campione. Oppure deve darci un codice, possiamo vedere il codice.

“Cioè il ministero deve fornirmi un codice?”

Il ragazzo rimane titubante. Questo signore non sembra ubriaco, deve essere semplicemente pazzo, magari i pazzi li mandano in Madagascar, che sicuramente sarà un posto per la salute mentale.

Se vuole, dice Virdis per venirgli incontro, posso farle avere il colore, però devo chiamare mio fratello, abita proprio qui vicino.

Il ragazzo, che non vuole troppe rogne, accetta la proposta. Meglio che venga il fratello, così si può individuare un colore (e mettere fine alla storia).

Virdis telefona al fratello. Antonello, dice, Antonello vieni qui, al colorificio, che qui il colore pare che non lo sappiano. Che poi così vado all’aeroporto, che non è poi tardi, ma insomma prima parto meglio è.

Il fratello arriva subito, il tempo di vestirsi. Perché noi, soggiunge Antonio al ragazzo, non che siamo vergognosi, però in casa ci piace stare in libertà, se mi capisce. In mutande, ecco. Persino nudi, in casa, ma quando bisogna uscire due stracci bisogna metterseli, no?

Convengo, dice il ragazzo, pensando al tipo di cure che si possono fare in Madagascar.

lepidottero di luna del Madagascar

lepidottero di luna del Madagascar

In Madagascar ci vado perché devo staccare la spina alla mente, dice Antonio, appoggiando un gomito al bancone. Sono così stanco, pensi che andavo al lavoro e non ricordavo più nemmeno se era mercoledì o giovedì. Dovevo telefonare a mio fratello. E a volte anche mio fratello faceva confusione, perché qui si fa Halloween che una volta non c’era e magari non si fa il patrono che una volta c’era. Là in Madagascar starò su un lettino tutto il giorno, questo è certo. Per uno come me il Madagascar è la soluzione migliore. Mi sono informato bene, ho preso un sacco di brochures, ti fanno stendere in una stanza con la musica new age e magari rimani lì tre ore, finché non ti senti davvero pronto ad alzarti. A volte ti alzi e insistono per farti rimanere steso ancora un po’, come se il lettino fosse proprio tuo o come se fosse mattina presto. Questo me l’ha detto mio fratello, che in Madagascar ci è andato prima di me. Lui ha perso la moglie. Nel senso che un bel giorno non l’ha più trovata, proprio, e allora è andato giù di testa ed è andato in Madagascar ed è ritornato rinato. Le consiglio di andarci, in Madagascar.

Magari fra qualche anno, dice il ragazzo, sapendo che in Madagascar non ci andrà mai e poi mai.

Ecco che arriva Antonello, dice Antonio. Corre alla porta trotterellando e agita le braccia. Antonello, qui!

Antonello saluta, poi chiede dello spogliatoio.

Il ragazzo cerca inutilmente con lo sguardo il suo principale. Qui non ci sono spogliatoi, dice. Noi vendiamo colori.

Appunto, dice Antonello, io sono qui per il verde.

Appunto, replica il ragazzo.

Noi non siamo così pudichi, fa Antonello, diciamo pudichi il necessario. Ecco, non siamo naturisti, ma neanche bigotti; insomma, se non ci sono spogliatoi non ho problemi davanti allo sportello, però se entra un cliente… va bene che alla fine è una normalissima procedura.

Quello che ho detto io, sottolinea Antonio.

Antonello si guarda intorno e si slaccia la cintura.

Aiuto, mormora il ragazzo.

Antonello cala le mutande e mostra al ragazzo una natica pitturata di un bel verde.

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Verde pisello, pensa il ragazzo. Come ho fatto a non pensarci, che c’è anche il verde pisello. Dice ai signori che non può mettere una natica nel tintometro: occorre una superficie pulita, limitata e non un pezzo di persona. E poi il body painting non si fa in negozio, nemmeno se uno deve andare in Madagascar.

Ormai per viaggiare ci vuole assolutamente il green ass, dice Antonello. Mio fratello ora deve partire e spero che lei non ci farà dei problemi proprio adesso. Io per il green ass ci ho messo cinque minuti. Cosa sono alla fine cinque minuti?

Fate la nanna coscine di pollo

Mi viene incontro il suono dolce di una chitarra acustica.

È una ninna nanna. Due genitori neri cercano di tener calmo il bimbo molto piccolo che deve fare un esame in ospedale, una risonanza forse.

Sarà che lavoro da molte ore, quel suono mi mette addosso un sonno potente. Vado a prendere un caffè alla sala ristoro, ma nulla cambia, la ninna nanna mi fa cadere le palpebre. Mi siedo accanto ai neri. Il bambino mi guarda con gli occhioni spalancati, mentre io lo vedo per intero, poi mezzo, poi solo una piccola riga color della sua maglietta rossa, poi più nulla.

Quando mi sveglio sono in una stanza anonima, che non è un ambulatorio e non è casa mia. Al mio fianco i due genitori neri mi stanno guardando. Quanta nanna hai fatto, mi dicono.

Grazie per l’ospitalità dico, ora devo tornare a casa.

“Com’è che ti chiami” mi dice la mamma.

Arnaldo Fabio, dico.

Bene, Arnaldino Fabietto, questa è casa tua.

Dico che si sbagliano, che non è casa mia. Sì che è tua, dice il papà. Sei o non sei il nostro bambino?

Allora mi viene in mente il loro vero bambino, quello con gli occhioni spalancati.

Dov’è vostro figlio, dico.

Sei tu!

No, quello con la maglietta rossa, dico.

Ah quello, dice la madre. Non voleva dormire. Ma tu dormivi, così abbiamo preso te.

Faccio gentilmente notare che è un sequestro di persona e che io in qualità di figlio sono comunque più vecchio di loro.

Vediamo cosa si può fare, dicono entrambi, e mi danno pacche sulle spalle come per tenermi tranquillo o forse per farmi fare un ruttino. L’età non importa, mi dicono, importa l’amore.

Sì, ma il vostro bambino dove l’avete lasciato.

Mi dicono che quello non dorme mai e che quindi conviene avere una bambino un po’ più vecchio, ma che non fa capricci. Mi lusingano con il biberon; io preferisco un biglietto da cento, poi però mi accorgo che la vita in culla non è così bella come dicono e dopo poche ore restituisco i soldi e mi licenzio senza preavviso.

Rimani, dice la madre, ti faccio una bella pappetta con i plasmon.

Invece io mi fiondo su un taxi e raggiungo l’ospedale. Chiedo del bambino. L’hanno preso su, l’hanno adottato, dicono. In effetti una coppia bianca si sta allontanando con il bambino nero, che dorme beato. Forse avere genitori bianchi fa fare sonni migliori ai bambini neri; può essere una teoria, tanto le teorie non fanno mai male.

Però non è più una teoria, quelli se ne stanno andando col fardello.

Li chiamo, si fermano, si voltano. Li ho chiamati signori. Sono signorili.

In quel mentre arrivano i neri, vedono il loro bambino addormentato e lo reclamano.

I signori signorili non vorrebbero, perché ci si sono già affezionati.

La mamma nera allora suggerisce ai signori di cercare sul cellulare la ninna nanna delle coscine di pollo. Poi strappa il bimbo nero dalla nuova famiglia. Andiamo, Al, dice al padre. Il padre si chiama Al, ora lo sappiamo, ma non è poi molto importante ai fini della storia, né lui né il nome. Lui non ha fatto altro che seguire la moglie per tutto il tempo.

L’uomo signorile interviene invece in modo deciso. “Datti da fare, Brenda.”

“In che senso” dice Brenda.

“Con le coscine di pollo.”

Dopo un breve battibecco sulle coscine di pollo e sulla loro utilità, Brenda accende il play. “Fate la nanna coscine di pollo, la vostra mamma vi ha fatto un gonnello…”

Io vedo Brenda che sorride, poi mezza Brenda, dietro le palpebre pesanti, poi basta.

Mi risveglio a casa dei signori signorili. “Arnaldone Fabiotto” mi dice l’uomo, una volta saputo il mio nome. “Sei contento di rimanere con noi?”

“Ti sbriciolo i plasmon” dice Brenda. “Te li sbriciolo tanto bene. Guardati, che tesoro che sei. Non è vero, Johnny, che è un tesoro?”