Ti chiedo scusa, ti ho abbandonato come un cane su un’autostrada, ma a differenza di un cane sei rimasto impassibile. Lo so, sono un verme, vorrei abbandonarmi sull’autostrada, ma fa troppo freddo. Sì, sono un verme freddoloso. Ti ho abbandonato contro tutti i buoni principi, primo fra tutti: coltiva la scrittura, coltivala tutti i giorni. Vorrei dire a mia discolpa che ho fatto questo e quello, ma se parlassi di discolpa significherebbe mettere in discussione la mia condizione di verme, che è innegabile. Racconterò quindi, escludendo vermi e abbandoni, quello che ho fatto, come quando si incontra un amico che non vedi da tempo e che ti chiede cosa fai di bello. Di bello lavoro tantissimo, vado a letto prestissimo, leggo poche righe e mi addormento e il giorno dopo non ricordo nulla di quelle letture. È un lavoro pieno di fatica e poesia che regala un’illusione di libertà e mi chiedo se non sia questa la vita, faticare e illudersi, dimenticando le poche righe lette di sera. È un lavoro precario e in questo senso è proprio vita. Così ho lasciato per tanto tempo le pagine bianche, che come tutti i sogni sono il luogo del possibile, sapendo che un giorno parole scese da una illuminazione temporanea le avrebbero abitate. Eccole. Ora mi sento un verme precario e illuminato, che non è molto. Un verme consolato però dall’idea che se le parole non danno il pane, una vita muta è molto peggio.
Archivio dell'autore: Roberto Stradiotti
Slippino
Edmunda Vasquez Oliveira Faraonda era morta di una morte inusuale, cioè aveva semplicemente deciso di morire e se ne era andata di lì a qualche minuto, prova che non sempre è la morte a decidere.
Se ne era andata a seguito di una discussione sul colore di uno slippino taglia large, acquistato in stock dai pentothalatleti, in occasione della gara della verità. Edmunda sosteneva che lo slippino era beige, il marito Paulo che era nocciola.
Paulo, davanti alla salma della moglie, si disperava, maledicendosi per non avere tenuto la lingua a freno. In realtà non era così sicuro che gli slippini fossero color nocciola, ma aveva osteggiato la moglie per il semplice piacere di contraddirla. E lei, stanca di essere contraddetta, gli aveva giurato che sarebbe morta..
“Edmunda dentro di sé ti aveva già perdonato” gli dicevano, ma lui a dire no, che non era vero, solo per il gusto di contraddirli. E comunque non c’era bisogno di morire per una discussione.
La vicenda ebbe vasta risonanza, in tutta Rio si parlava della morte della donna e del colore degli slippini olimpici.
Così nella gara di pentothal si decise di fare la domanda del colore. Già prima e anche durante l’iniezione gli atleti bluffavano, cercando di convincere gli avversari con i colori più disparati, come il blu metafisico di Giotto, l’oro fasullo, il color tramonto del tre luglio alle venti e quaranta. Qualcuno vacillava, ma non mancavano i favoriti: i concorrenti della Cina, della Corea e dell’Amerindia già in fase preparatoria, un paio di ore prima, si erano avvicinati alla risposta esatta.
Sotto l’effetto del pentothal i primi tentativi furono vaghi e poco incoraggianti.
“Che ore sono?” chiese Igino Fragor al suo vicino, Paco Pamo.
“Non suggerite!” ammonì il direttore di gara.
“L’ora esatta” rispose Paco, coricato sul lettino come se prendesse il sole.
“Da piccolo mi sono chinato a raccogliere la mia locomotiva e i pantaloni si sono strappati proprio in mezzo” ricordò Asente Delor. “Avevo quattro anni. Il mio cane si è messo a ridere, ma nessuno ha mai voluto credermi.”
“Da piccolo all’asilo guardavo sotto la sottana di Rita” confessò Jean Macoin. “Erano bianche, ricordo.”
La folla sugli spalti ondeggiò visibilmente. Finalmente un colore.
Ermete Rosiconi sghignazzò. “Ho trovato degli slippini di Armani in saldo. Ma io li cercavo di Trussardi.”
“Quindi?” chiese Oreste Olocrea, che stava per dire una cosa di cui si era sempre terribilmente vergognato.
“Quindi niente, li ho lasciati lì.”
“Ma com’erano?”
“Neri, scontati del cinquanta per cento. Certo che se me li avessero regalati li avrei accettati, anche se ci tengo a dire che cercavo Trussardi. Ci sono rimasto molto male quando ho saputo che i nostri slippini di gara non erano Trussardi.”
Olef Gundam ringhiò e lo guardò storto. “Se vinci ne avrai a bizzeffe, quindi continua a sognare.”
Olocrea gemette costernato. “Me la ero fatta nelle mutande. La maestra diceva che sentiva odore, ma non avevo il coraggio di confessare. Poi mi misi a piangere e i miei compagni mi prendevano in giro. La cuoca rimediò dei pantaloncini a quadretti, rossi.”
Un mormorio di eccitazione serpeggiò sugli spalti.
“Confessate” tuonò il direttore di gara. “Di che colore sono i vostri slippini?”
“Che cosa significa che è l’ora esatta?” sbottò Fragor, risalendo dalla pausa di riflessione letargica.
Paco scrollò le spalle, poi la testa, poi i piedi, poi scrollò Fragor con violenza. “Significa che questa è la pura sacrosanta verità. Perché un’ora non può essere l’ora che dico, il tempo non può essere il tempo che dico!”
Il direttore si appoggiò alla sua assistente. La ragazza, un’afro olandese dai lineamenti molto mascolini, notò in lui segni di stanchezza e lo prese in braccio.
Gundam sospirò, con aria sognante. “Ho solo macchine rosse e mutande bianche. Ecco perché non amo questi slippini da competizione. Sono così… così…”
Il pubblico si alzò in piedi, sollevando le braccia. “Colore! Colore! Colore” era il coro che si levava con un volume che faceva vibrare la plastica delle seggiole.
“Così scuri! – si risolse Gundam – ma io amo i colori chiari, i colori violenti, non questo marroncino.”
Il pubblico ammutolì, sconvolto. Tutto si poteva dire degli slippini olimpici, meno che fossero marroncini.
Asente Delor: “Non sono marroncini; ambra, se mai. Sono slippini ambra.” Guardò il direttore, aspettando un cenno che sancisse la sua vittoria.
Rosiconi prese gli slippini fra due dita e li tastò, come se i polpastrelli potessero riconoscere il vero colore. “Giallo carota, direi.”
Jean Macoin squittì divertito, guardando gli altri, poi vide che nessuno rideva. “Le carote sono arancioni!”
“A casa mia sono gialle.” Il giudice assentì con un cenno del capo appena percettibile, perché era il vicino di casa di Rosiconi e gli aveva sempre invidiato le sue carote gialle, di cui l’orto era pieno. Carote, soltanto carote gialle, in ogni angolino di terra disponibile.
Fragor fece una capriola, poi un’altra. “Mi vedete? Vedete bene il mio culo per aria? Anche un cieco vedrebbe che questi slippini sono tutt’altro che gialli. Sono canna di fucile. Questi slippini sono canna di fucile.”
Il direttore assunse un’aria così sconsolata che l’assistente gli diede un bacio in fronte e prese a cullarlo fra le sue braccia, passandogli le unghie fra le rughe della fronte. Anche il pubblico aveva un’aria spazientita e annoiata, ormai le dichiarazioni degli atleti non facevano così tanto scalpore. Più di uno pensò a una gara combinata, ma era impossibile, sotto l’effetto del pentothal, sparare colori a casaccio. Impossibile giudicare giallo o scuro quello slippino che sembrava sabbia. O terracotta, o terra di Siena.
“Color cammello!” disse Paco doppiamente felice, sia perché era certo che fosse color cammello, sia perché comunque il color cammello era un po’ vago, chi sapeva dire veramente di che colore fosse un cammello? Si diceva appunto color cammello perché comprendeva un po’ tutto, come dire color estate o color vecchiaia.
Il direttore di gara venne svegliato dal bisbiglio roco dell’assistente. Era scaduto il limite massimo di trenta minuti. Dichiarò che i concorrenti erano tutti ex aequo, al secondo posto, ma senza medaglia.
La folla era incontenibile. “Il colore! Il colore!”
Il direttore scivolò dalle braccia dell’assistente, si sistemò il vestito, aprì la busta e lesse: “Caffelatte.”
Paulo, che aveva guardato la gara in televisione, sul divano, si voltò verso la foto della moglie e protestò: “Color nocciola!”
Subito dopo, per contraddire anche se stesso, accettò la dichiarazione ufficiale, ma per qualche tempo in tutta l’America latina si continuò a parlare del colore dello slippino.