Informazioni su Roberto Stradiotti

studi classici, bonsaista della domenica

Il parcheggio in città e la pluralità dei mondi

Sono il tormentato possessore di una v strom del 2006. Nella mia città i tormentati possessori di moto hanno pochi spazi e la prima domanda è perché ci siano pochi spazi per le moto. È come se uno mettesse su famiglia, ma poi non avesse la casa.

Un giorno, in occasione di una festa cittadina di respiro nazionale, ma soprattutto alcolico, trovai una macchina parcheggiata sulle strisce riservate alle moto.

C’era un vigile a ogni angolo.

“Scusi signor vigile, il parcheggio delle moto è tutto occupato.”

“Normale, è un parcheggio.”

“Occupato da una macchina.”

Stava per dirmi che era normale, ma anche la sua aria poco sveglia lasciava trapelare che non lo pensava davvero. Chiamò via radio e disse un po’ di e di va bene, tanto per segnalarmi che era attento alle mie esigenze, a quello che dicevano e, appunto, vigile.

Mi comunicò che tutte le pattuglie erano impegnate e nessuno poteva intervenire. Così due volte ero stato calpestato nel mio diritto; la prima da un automobilista, la seconda dai vigili urbani. Da questo episodio ho appreso una grande lezione: durante le sagre, le feste del cotechino, le celebrazioni del cioccolato, la ricorrenza dell’uva passa, si può parcheggiare dove si vuole.

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La stazione da fiaba.

La stazione della mia città non è fatta per essere una stazione, ma un giardinetto ed è un giardinetto da fiaba. Il posto per i treni c’è, altrimenti non si chiamerebbe stazione dei treni, ma stazione del giardinetto. Il posto per le macchine no, non c’è, o è poco. Le persone che arrivano in macchina a prelevare figlie, nonni, parenti che non vedevano da anni sono almeno il doppio, se non il triplo, dei posti disponibili. Quindi nel supermercato vicino alla stazione ti può capitare di vedere auto nella corsia della frutta cinque minuti prima dell’arrivo del treno da Milano. Poi tutti usciranno in colonna ordinata dall’uscita senza acquisti.

Dicesi parcheggio, recita la gloriosa Treccani, sosta di veicoli, per un periodo di tempo piuttosto lungo, in uno spazio consentito o in una zona appositamente riservata dall’autorità competente. Se i vigili si comportano come sopra, in crisi di competenza e autorità, in questi casi uno parcheggia anche dove non c’è uno spazio consentito, rifacendosi al principio della pluralità dei mondi: non solo è possibile che esistano altri pianeti, ma sicuramente su almeno uno di questi i parcheggi sono solo laddove non esistono le strisce che li delimitino. Infatti nella via adiacente al giardino antistante la stazione ci sono a sinistra della strada i SUV che aspettano chi scende dal treno, a destra i taxi che aspettano chi scende dal treno, in mezzo alla strada i tassisti che aspettano clienti che scendono dal treno. Ti guardano come a dire: come mai sei arrivato in macchina?

Tutti i posti riservati agli handicappati sono pieni, ma uno che è nel posto gli handicappati si vergogna di passare per handicappato, perché non lo è, allora mette le quattro frecce che significano anzitutto che è sano e poi che se ne andrà al più presto, dopo aver caricato valigie e passeggeri. Gli handicappati veri non trovano posto, così è facile che li trovi nel reparto carni.

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Ovviamente chi si trova nel parcheggio regolamentare non potrà più uscire, perché sulle strade si sarà verificato un esodo da ferragosto e quindi di solito, almeno quelli più previdenti, portano beni di prima necessità: un po’ d’acqua, un trancio di pizza, le pastiglie per la pressione, una copertina di lana. Puoi avere la fortuna di infilarti in quella coda di esodati, se uno ti fa passare, e per farti passare i casi sono due, statisticamente: 1) il conducente ha un malore; 2) la macchina si spegne e non vuole ripartire. Ti infili nella fiumana e da allora con il codice della strada ti ci pulisci il cuore, perché vince chi sgomma di più.

Ho visto gente che si ferma di nuovo nei parcheggi a riposare un po’, una volta uscita dalla stazione. Gente che non compera più case, ma parcheggi cittadini, all’aperto e poi li blinda con barriere fornite di lucchetti superdotati. Gente che si è rovinata, prosciugando le finanze, solo per avere decine di parcheggi disseminati per la città. Ho visto anche parcheggi personalizzati, con impressa sull’asfalto la foto a colori del proprietario, che ti sorride benevolo e comprensivo, ma anche dispiaciuto. Quell’area non potrai mai toccarla, solo vederla.

Un amico psicologo mi ha detto che qualcuno è arrivato a tradire la moglie con un posto macchina. Fanno degli incontri clandestini e l’amante si corica sopra il parcheggio libero e spesso ci passa la notte e quando la moglie gli chiede dove sia stato, risponde: al parcheggio. Ma lei non ci crede.

Chi ha le rimesse che danno sulla strada ha cominciato ad affittare i parcheggi a ore, a volte con prezzi da mercato nero e per chi vuole essere alla moda un parcheggio coperto è un must, tanto che a volte uno deve uscire con la macchina dal garage, ma non lo fa, si fa anche trenta chilometri a piedi, perché avere la macchina in una rimessa di proprietà, vista strada, fa status symbol.

Lo scorso anno una famiglia ha passato le vacanze in una rimessa in via dei tigli, con tanto di sdraio e tavolino da pic nic. Salutavano i passanti e sembravano felici e rilassati.

Un garage al posto di una villa?

Senza dubbio è la tendenza dei prossimi anni. Parcheggi sull’asfalto per i meno abbienti, confortevoli monolocali per i vip, dove ci tieni moto, auto, letto, minibar.

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Sta finendo l’era delle ville da mille metri quadri e sicuramente in qualche mondo che non abbiamo ancora scoperto le famiglie vivono in posti – che magari non si chiamano rimesse – dove tengono i loro mezzi di locomozione, i viveri e una branda. A pensarci bene si è sempre fatto così: quando comperi casa parcheggi famiglia e affetti, o anche solo la tua solitudine. Sono disposto a scommettere che il parcheggio è così importante – si ruba spazio alle moto, si inventa dove non c’è – che sbarcherà presto in Borsa e forse diventerà una religione. Si pregherà non per una salvezza ultraterrena, ma per un posto macchina in terra, qui, subito, possibilmente coperto e personalizzato.

 

Quando Castro voleva i giochi invernali

Un po' somiglia a Hemingway, ma vagamente

Questa è la fotografia di uno che somiglia un pochino a Hemingway, ma non è Hemingway, così si evitano i diritti d’autore. Comunque fate finta che sia Hemingway

 

Fidel disse che voleva parlarmi, così mi caricò in macchina e ci fermammo alla Floridita.

I suoi uomini rimasero di guardia davanti alla porta, mentre noi ci sedemmo al solito tavolo. Fidel si sistemò spalle al muro, per motivi di sicurezza, mi disse, ma secondo me voleva vedere le donne che passavano sulla strada. Non mi aveva portato lì per un daiquiri, ma perché ero uno sportivo e mi interessavo di sport.

“Voglio ugualmente il mio daiquiri” dissi.

Fidel sorrise e fece un cenno al ragazzo dietro il bancone.

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Questi è davvero Fidel Castro, quindi non è necessario fingere che lo sia

Per un po’ mi fissò senza parlare. Io non avevo fretta, il pomeriggio era lungo e caldo e avevo appena spedito un articolo sulle correnti del Golfo più in voga fra i delfini innamorati.

Il ragazzo quando arrivò con il daiquiri chiese il permesso di dirgli una cosa sottovoce e poi vidi Fidel molto nervoso. Mi chiese di seguirlo in hotel e io lasciai a malincuore il bicchiere pieno.

All’Hotel Nacional ordinai un altro daiquiri, ma sapevo che non sarebbe stata la stessa cosa. Eravamo in una stanzetta disadorna, quasi disabitata, ma dalla finestra potevo vedere il mare e per poco non piansi, senza sapere perché. Fidel giocherellava con la fondina della pistola. Poi mi guardò e sospirò.

Un consiglio da amico.

“Voglio un consiglio, un consiglio da amico” mi disse.

“Se posso” risposi e davvero volevo dargli un consiglio sincero, mi avrebbe scaldato l’animo più di un daiquiri rimediato e scadente.

“Vorrei portare i giochi invernali a Cuba.”

Era un uomo ambizioso, aveva affrontato il carcere e la dittatura, lo ammiravo, tuttavia non potei fare a meno di sorridere. “Sarebbe facile con una corrida” dissi. “A Cuba si possono fare molte cose, ma non i giochi invernali.”

Fidel balzò dalla sedia, ma fu svelto a riprendere il controllo. Si mise a camminare con le braccia dietro la schiena, soffermandosi sugli arabeschi del pavimento. “Non vedo il problema.”

“Il motivo è semplice. A Cuba non c’è abbastanza inverno, non c’è neve.”

Fidel cominciò a mangiucchiare il suo sigaro acceso. Fumava e sputava pezzi di tabacco in continuazione. “Stiamo parlando di giochi invernali, non di giochi innevati.”

“Non puoi fare il telemark e nemmeno lo skeleton, non potresti nemmeno buttando neve finta. Qui si fanno i bagni in mare. Davvero, Fidel, non funzonerebbe.”

Fidel si buttò sulla poltrona, ad un tratto sembrò stanchissimo. Guardò la brace del sigaro e ci soffiò sopra. “Il mio popolo ha bisogno di un grande paese e un grande paese ha bisogno dei giochi invernali. La Russia fa i giochi invernali, la Russia è un grande paese.”

“La Russia è in Russia e per fare un grande paese c’è bisogno di uomini grandi. Sai l’America, come riderebbe?”

“Ho sempre sognato il bob” mi confessò. Un bob a due io e il Che. Parti pieno di speranze, poi la velocità, le curve che ti portano i crampi allo stomaco, la sensazione che laggiù al traguardo sarà un mondo diverso. Quante volte ho sognato!”

“Non finirà così” dissi. Bevvi il mio daiquiri e ne ebbi la certezza.

“Allora facciamo i giochi giù alla baia. Non sarebbe divertente? Eh? Non sarebbe divertente?” Si lamentava come un bambinetto e voleva a tutti i costi la mia approvazione, allora mi alzai per congedarmi.

Indicò il mio bicchiere vuoto. “Te ne ordino un altro, aspetta.” Non voleva che lo lasciassi solo, aveva bisogno di qualcuno che gli parlasse del suo grande paese e dei grandi uomini e dei giochi che l’avrebbero reso ancor più grande, più dell’America; una nazione che fosse un modello per tutti i tempi. Ma avevo una finestra con vista sul mare ed ero irrequieto. “Io vado” dissi.

Scesi le scale mentre Fidel, aggrappato alla ringhiera, mi urlava che non avrebbe rinunciato allo sci di fondo solo per qualche grado di troppo. Mi chiese di tornare di sopra, poi me lo ordinò, poi mi disse che avrebbe espropriato la Finca Vigia e l’avrebbe regalata al popolo e che io ero nemico del popolo e non meritavo la sua amicizia.

I suoi uomini, che attendevano nella hall con le braccia incrociate, mi guardarono sorridendo. Mi salutarono e uno di loro scimmiottò Fidel, ma si pentì e arrossì vistosamente. “Il bob a due!” urlava Fidel con la voce ormai roca. “Il bob a due!” E lo sentii ancora mentre in strada mi dirigevo alla Bodeguita. “Booob!” urlava e il lamento si perdeva fra il rumore dei miei passi sulla ghiaia. Poi non sentii più nulla, solo l’aria profumata di salsedine.

Il bob a due.

Il bob era rosso, rilucente nel sole e devo dire che aveva il fascino di un bolide da strada. Era piazzato su una terrapieno bianco, fra due ali di folla osannante. C’erano le televisioni e i giornalisti, ma gli americani non avevano avuto il permesso di assistere. Da un tendone verde posizionato sulla collinetta uscirono Fidel e il Che, anche se sulle prime non li riconobbi, perché portavano enormi occhiali e strane tute che li facevano somigliare a palombari. Fecero cenni di vittoria con le dita, poi Fidel si avvicinò al microfono e parlò di un grande paese che poteva fare ciò che voleva, i giochi estivi, quelli invernali, tutti i giochi possibili e questo significava uguaglianza e democrazia. Gli applausi coprirono le sue ultime parole. Aiutati da un manipolo di militari, Fidel e il Che presero posizione nel bob. Castro ovviamente occupò il posto anteriore, ma poi dovette desistere perché il sigaro del Che gli ustionava il collo.

Quando partirono sollevarono una nuvola bianca e spumosa che per qualche attimo li rese invisibili, poi ricomparvero prendendo velocità. Erano due bambini, ora e giocavano incuranti dei pensieri dei grandi. Giocavano su un breve rettilineo facile e senza avversari, che li portò all’arrivo in meno di trenta secondi. Allora, mentre ancora il Che stava sollevando la maschera, Fidel alzò una mano in segno di vittoria. Io ero piuttosto defilato dal resto del gruppo, ma sono sicuro che stava guardando me, e che con il suo gesto declinava la mia sconfitta. Stava partecipando ai suoi personali giochi d’inverno e ora il popolo era felice, non c’era più posto per i vinti, la parola sogno veniva messa da parte per sempre, perché anche la finzione poteva essere realtà, polistirolo e schiuma da barba avevano ora la stessa dignità della neve, i due combattenti erano atleti che si sarebbero battuti fino alla morte.

Decisi di tornare a casa dai miei gatti. Attraversai la Plaza Major, fra un esercito di cani randagi, e per un attimo lo spettacolo del sole mi illuse che tutto fosse possibile, che un giorno il tetto della mia casa si sarebbe coperto di neve, se avessi avuto ancora una casa. Un turista paonazzo e felice urlò che Castro era sceso col bob e un bastardino pulcioso si avvicinò a fiutarlo, poi decise di cambiare direzione e andò a orinare in un angolino tranquillo e nascosto, senza sole e senza sogni.