Sulla collina, nel ventre di una fila di case davanti a me, nuove e diroccate nel contempo, sbattevano maliziose le ante, in assenza di vento.
Le finestre hanno iniziato a fare l’alfabeto morse, sembravano lingue di incendi sul nascere. Mi hanno chiesto chi ero e mi sentivo stupido, perché la casa mi parlava. Quando quattro finestre si sono accese nel contempo, il latrato del cane triste è svanito, i rumori dei paeselli laggiù si sentivano appena. Sotto il balcone, il passo di una donna testimoniava la sua rinnovata attenzione per la portulaca e l’acetosella, ma io ormai ero figlio del buio, sentivo la vita come un’amica lontana, al pari degli spilli di stop accesi sulle automobili di gente smarrita nella notte.
Non ho mai pensato che avrei potuto parlare con le case, ma forse questo capita una certa età. Non ho mai pensato che avrei potuto capire le case e le cose, non avrei mai pensato che un cedro e un rovere potessero essere testimoni della mia intesa con quelle facciate slavate che carezzano la cresta della collina al punto che sembrano parte di essa. Le luci di vecchi lampadari ammiccavano gialle e fioche, identiche a quelle della mia cucina, durante l’infanzia, quando seduto in un angolo vicino al televisore acceso leggevo romanzi d’avventura e pensavo che la vita vera fosse quella lì, quella dei romanzi.
I lampadari con il linguaggio morse mi chiedevano chi ero, ma non ho saputo rispondere.